GENTE DI CALABRIA di Chiara Ortuso

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GENTE DI CALABRIA

DISCUTENDO SULLA QUESTIONE MERIDIONALE

di Chiara Ortuso

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RISTORAZIONE: IL FUTURO PASSA PER L'AGGIORNAMENTO E L'INNOVAZIONE di Walter Crircì
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LA TORRE SARACENA di Eugenio Crea 
LA DANZA DELLA VITA di la Redazione 
ALAN LOMAX di Federica Legato

 

GENTE DI CALABRIA di Chiara Ortuso

 

Una terra impervia ed aspra, un luogo che dilata l’anima su selvagge scogliere e sterminate distese di acqua. Un punto incantato e prodigioso rammemorante un trascorso di miti e leggende. Una regione dalle poliedriche tradizioni, dai mille dialetti che si intrecciano con la solarità tipica di chi, da sempre, si alimenta del volto dell’altro uomo. E poi paesi che si inerpicano sino alle alte pedici dei monti per ridiscendere, fievolmente, laddove le coste arroventano, con i loro irregolari schizzi, l’esistenza di individui atti ad ammirare quei mari capaci di assumere variegati tinteggi. I colori più energici che si perdono nei riflessi di un tramonto prossimo a venire o, al contrario, a passare. Perchè la Calabria è tutto questo e molto altro ancora. Perché, citando gli straripanti lemmi di uno scrittore che ha raccontato, attraverso le navigate pagine dei suoi testi, l’infuocata e vigorosa passione del proprio locus ab origine, Leonida Repaci:
Quando fu il giorno della Calabria Dio si trovò in pugno 1500 km quadrati di argilla verdi con riflessi viola. Pensò che con quella creta si potesse modellare un paese di due milioni di abitanti al massimo. Era teso in un maschio vigore creativo il Signore, e promise a se stesso di fare un capolavoro. Si mise all’opera e la Calabria uscì dalle sue mani più bella della California e delle Hawaii, più bella della Costa Azzurra e degli arcipelaghi giapponesi […] Volle il mare sempre viola, la rosa sbocciante a dicembre, il cielo terso, le campagne fertili, le messi pingui, l’acqua abbondante, il clima mite, il profumo delle erbe inebriante.

Un miracolo di splendore e di bellezza che si rinnova ad ogni sentiero battuto da occhi in grado di nutrirsi dell’eco sinuosa degli abissi, di quel bagliore che attraversa le infinite spiagge in cui si snoda la vita di cittadini carezzati dai raggi di una luce perpetua, quasi divina. Ma cotanta beltà è costretta, come in ogni favola che si adorni di tale nome, a fronteggiare multiformi maremoti e strazianti sciagure, cosi:
Operate tutte queste cose nel presente e nel futuro, il Signore fu preso da una dolce sonnolenza, in cui entrava il compiacimento del creatore verso il capolavoro raggiunto. Del breve sonno divino approfittò, allora, il diavolo per assegnare alla Calabria le sue calamità: le dominazioni, il terremoto, la malaria, il latifondo, le fiumare, le alluvioni, la peronospora, la siccità, la mosca olearia, l’analfabetismo, il punto d’onore, la gelosia, l’Onorata società, la vendetta, l’omertà, la violenza, la falsa testimonianza, la miseria, l’emigrazione.

Croce e delizia, Castore e Polluce, apollineo e dionisiaco poichè finanche la spettacolarità di una straordinaria grazia paesaggistica in cui sembra specchiarsi la cordialità di affabili nature umane vive, increspandosi, nella contraddittorietà delle sue piaghe, le quali paiono ammantarla, avvilendola, di un triste destino di abbandono. Eppure:
Quando aperti gli occhi potè abbracciare in tutta la sua vastità la rovina recata alla creatura prediletta, Dio scaraventò con un gesto di collera il Maligno nei profondi abissi del cielo. Poi, lentamente, rasserenandosi, disse: – Questi mali e questi bisogni sono ormai scatenati e debbono seguire la loro parabola. Ma essi non impediranno alla Calabria di essere come io l’ho voluta. La sua felicità sarà raggiunta con più sudore, ecco tutto.

Così quella spada di Damocle che pende continuamente sul profilo di una regione forgiata per annunciare policromi arcobaleni e cieli tersi si frammenta in “una notte che già contiene l’albore del giorno”. Un dì radioso che costantemente riluce nel firmamento calabrese senza, tuttavia, scansare quelle frequenti tempeste, gli uragani che avvolgono il suolo di una nebbia, spesso, fitta da cui, ad un esame più attento, si intravede uno squarcio di luna. Astri che sopravvivono nel cuore di chi combatte, come in un percorso dialettico assai accidentato, dove il negativo sembra costituire la molla, lo sprone, per l’affermarsi del suo positivo, conservando e comprendendo – (in tedesco diremmo Aufhebung citando la speculazione hegeliana) – gli errori del passato per ribaltarli in una piega di stelle, per liberare finalmente tale immenso patrimonio di tradizione e idee da un oblio capace di trasmutare il fascino di quella storia in violenta desolazione.

In egual maniera, come magistralmente configura nella sua opera lo scrittore, giornalista e poeta, Corrado Alvaro, massima espressione della letteratura neorealista novecentesca, la difficoltà che i pastori aspromontani sono costretti, specie durante i primi anni del XIX secolo, ad affrontare, sopravvivendo ad un mondo intessuto su trame spietate ed ingiustizie profonde, si rovescia in segreta dolcezza, in un cosmo di valori che, poiché genuini e sinceri, vanno custoditi nella memoria collettiva in qualità di gemme, speranza a-venire di serena rinascita.

Alla luce di quanto da noi sinora esposto, non è un frutto del caso che tale rubrica, nata con il superiore intento da parte di chi la scrive, di valorizzare figure, personaggi, intellettuali antichi e contemporanei, ma anche di sottolineare problematiche e questioni le quali costituiscono quell’humus di cui la nostra meravigliosa terra si compone, tragga (mutatis mutandis) ispirazione proprio dal titolo del testo del sopracitato Alvaro, Gente in Aspromonte, allargandolo, in un abbraccio d’intenti, all’intera nostra regione, a quella Calabria che, ripetutamente, chiama a sè, come accogliente e generosa madre, i propri figli, i quali non sempre risultano essere a lei responsabili e grati. Così, nella prospettiva di una ininterrotta palingenesi finalizzata a ricreare quel tessuto sociale che pecca di frammentarietà e irresolutezza, presentiamo in questo primo numero della rivista Madreterra, un importante testo, Ancora la questione meridionale, Riflessioni e analisi per superare la storica impasse italiana (Academ editore, Rubbettino print, Soveria Mannelli 2020, pp. 94), che ha il merito di discutere, mediante le voci dell’attuale imprenditoria meridionale, una pagina particolarmente difficile dell’historia dell’intero Sud Italia, la Questione Meridionale. Desertificazione industriale, imperante emigrazione giovanile, dolorosa precarietà lavorativa, urgente impoverimento materiale ed educativo appaiono, infatti, come i maggiori impedimenti, i quali, come ferite dischiuse, lacerano senza tregua il tessuto strutturale, economico e sociale, del Meridione facendo di esso il “grande malato d’Europa”, in quanto territorio viziato da una complessa impasse, atta a condannare la condizione del Mezzogiorno a triste fanalino di coda del Paese.

Eppure la straordinaria varietà climatica e colturale, la strategica posizione geografica che rende le regioni mediterranee superfici illuminate dal Sole e mondi costeggiati dal mare, tra Gibilterra e Suez, incoraggia gli autori del suddetto testo, Francesco Terrore, fondatore del gruppo Sidelmed Spa, insieme con i giornalisti Roberto Messina e Maurizio Carucci, ad affrontare un percorso di analisi e di riflessione il quale, procedendo attraverso le interviste a dieci rilevanti protagonisti della realtà imprenditoriale del Sud si addentra in considerazioni rivolte alla puntuale individuazione delle note più complesse delle terre nostrane, individuando, finanche, possibili soluzioni per rompere l’isolamento a cui il Mezzogiorno pare essere condannato a partire dall’epoca della monarchia borbonica; una effettività reale, quest’ultima, “caratterizzata da una grave arretratezza civile, sociale ed economica, trainata da un industria fasulla tenuta in piedi dal protezionismo economico, crollata nel confronto con il mercato nazionale (e ancor di più internazionale)” aggravata dall’avvento dell’Unità d’Italia. Unificazione avvenuta “di fatto con troppa rapidità, senza dare tempo all’identità nazionale di affermarsi per davvero e ovunque”, subendo il capillare controllo e la fitta gestione da parte di un governo centrale, la storiografia parla del summenzionato fenomeno con il nome di piemontizzazione, o piemontismo – alludendo con tale espressione all’estensione acritica del modello economico e governativo, da parte del Piemonte sabaudo a tutte le regioni dell’Italia meridionale annesse in seguito alla garibaldina spedizione dei mille – in grado di perpetrare comportamenti imperialisti e colonizzatori, fissando quella spaccatura tra Nord e Sud, “le cui fragilità e debolezze, citando il testo, si sono, sempre e puntualmente riproposte, immutate e penalizzanti”, attraverso i secoli.

Alcune immagini relative alla desertificazione ed all’ abbandono delle infinite aree che dovevano essere destinate a zona industriale nei press del porto commerciale di Gioia Tauro (ex area 5° centro siderurgico).

 

Così la questione meridionale, la cui denominazione risale agli anni settanta dell’Ottocento, utilizzata per la prima volta nel 1873 da un deputato lombardo della Sinistra storica, Antonio Billia, emerge in tutta la sua multiforme eterogeneità, configurandosi, nelle intenzioni dei suoi propulsori, quale immediata designazione dell’arretratezza, economica e culturale, del Meridione nel confronto diretto con le altre regioni d’Italia (in ispecie quelle settentrionali). Dinnanzi agli interventi straordinari, vd. politiche assistenzialiste giolittiane e, più tardi, l’esperimento democristiano della Cassa del Mezzogiorno, messe a punto ad hoc, ma si deve ribadire mai troppo convintamente, da parte degli esecutivi avvicendatesi alla direzione dello Stato per promuovere incentivi utili al trasferimento e al decollo di fabbriche private, nonché all’apertura di stabilimenti pubblici, finalizzati a favorire il sorgere di un’economia volta a prosperare indipendentemente dal sostegno statale, gli autori del saggio registrano, in accordo con gli intervistati, il sostanziale fallimento di un disegno teso a fare del Meridione una “succursale” del Nord, bocciando l’idea dell’istituzione di una Macroregione del Sud o di zone franche bisognose del costante intervento del Settentrione.

“Nessun assistenzialismo – per quanto benevolo e ben intenzionato – può dunque sostituire l’indispensabile capacità autopropulsiva del Meridione e dei suoi giovani”, i quali andrebbero sostenuti nel tentare le nuove strade dell’imprenditoria o della libera professione, attraverso l’impiego, da parte degli amministratori locali, di cospicui capitali nell’ambito delle risorse umane, quali studio e formazione, aggirando lo spettro del guadagno facile che risulta alimentato dalle logiche clientelari della criminalità organizzata, la quale costituisce, ancora oggi purtroppo, un importante fattore di disgregazione sociale capace di ostacolare l’immediato sviluppo delle migliori risorse di cui il Mezzogiorno dispone in termini, soprattutto, di rilancio del terzo settore.

Solamente conseguenzialmente ad un necessario potenziamento di una spinta alla creatività, come in conclusione tutte le voci di cui si compone il suddetto volume sottolineano, alla continua valorizzazione dello straordinario patrimonio artistico-culturale e naturale di cui il Sud Italia, Calabria in primis, può fregiarsi di possedere, è possibile che si venga a sviluppare quel potente attrattore di flussi economici e sociali, in grado da solo, di richiamare turismo ed incrementi, rigenerando, mediante la produzione di qualità di cui il Mezzogiorno vanta un’antica storia e tradizione, un tessuto pubblico fondato sulla dignità e sulla coscienza civile, attuando le riforme necessarie per conquistare quella ubicazione che, per potenzialità e valori, spetta al Meridione e alla Calabria in qualità di volano di crescita e profitto per l’intera nazione italiana.
Utta a fa jornu c’a notti è fatta”.

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